Carcere e Marginalità

Un incontro, nel nostro istituto, nell’ambito dell’iniziativa “Parole di Giustizia” promossa dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino “Carlo Bo”

Il 20 ottobre scorso alcune classi Quinte del nostro Istituto hanno partecipato ad un incontro di alta formazione, non solo disciplinare ma anche umana, proposto al Dipartimento di Diritto dalla dottoressa Chiara Gabrielli, professoressa associata di Diritto processuale penale presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Giurisprudenza, nell’ambito dell’iniziativa “Parole di giustizia”.

I due relatori, il Dr. De Vito e il Dr. Gianfilippi, sono due magistrati di sorveglianza, che hanno pertanto avviato l’incontro presentando agli studenti la figura, il ruolo ed i compiti del magistrato di sorveglianza, ovvero di quella parte della magistratura che funzionalmente si occupa della sorveglianza sull’esecuzione della pena (diritto dell’esecuzione penale). Nata con la legge di Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, legge 26 luglio 1975 n. 354, attuativa dell’articolo 27 della Costituzione, questa figura ha un ruolo che si estende, oltre che alle questioni relative ai diritti dei detenuti durante l’esecuzione della pena, anche alla concessione e alla gestione delle pene alternative alla detenzione, sia per la parte finale della pena sia prima dell’inizio della sua esecuzione. Rappresenta dunque un ponte fra la giustizia che assegna la pena e la pena nel suo svolgimento ordinario.

Proprio questo particolare punto di osservazione è stato l’oggetto dell’incontro, dal suggestivo titolo Carcere e marginalità: riflettere sul mondo del carcere, del suo rapporto con la giustizia ma anche con la società “fuori”. I due magistrati hanno infatti molto insistito sul tema della risocializzazione, ovvero sul processo che permette il reinserimento di chi ha scontato la propria pena, nella vita sociale e civile. A loro avviso i processi di rieducazione e risocializzazione dovrebbero procedere costantemente durante l’intero periodo di detenzione. Se ciò non avviene è impossibile affrontare un qualsiasi recupero di chi delinque, creando in tal modo un danno al reo ed ai suoi familiari, non smorzando comunque il dolore della vittima e della sua famiglia ed infine causando nuove situazioni future di insicurezza sociale. Le pene, infatti, hanno generalmente un termine e i detenuti devono tornare in società ed in essa reinserirsi: perché ciò accada occorre abbandonare l’idea di una pena esemplare, dura, che “tolga” e basta ai detenuti (diritti, libertà, relazione…) ed accogliere l’idea di una pena che invece “aggiunga” alle vite: esperienze, conoscenze, competenze, ovvero tutto ciò che prima probabilmente non c’era stato.

Invece le condizioni carcerarie attuali ed il sovraffollamento sono da anni un’emergenza nazionale e democratica, causa principale delle insostenibili condizioni dei detenuti. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in data 8 gennaio 2013 ha pronunciato sentenza di condanna dell’Italia, accertando nel caso concreto la violazione dell’art. 3 CEDU e, contestualmente, ha preteso l’obbligo di porre in essere misure e azioni indispensabili per porvi rimedio, invitando lo Stato a ricorrere il più ampiamente possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la politica penale verso un minor ricorso alla detenzione.

Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna nel loro libro “Vendetta Pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza 2020) sottolineano che: “Solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82%. Inoltre, i carcerati italiani hanno in media pene più lunga rispetto ai vicini europei: coloro che scontano l’ergastolo sono il 4,4% dei condannati, in confronto al dato europeo del 3,5%”.

Perché queste differenze? Perché in Italia si va così tanto in carcere? In Italia, l’ordinamento ha ancora come centro la pena detentiva. Solo ora, con alcune riforme che sono state delineate anche recentemente, la riforma Cartabia ad esempio, si prevede che per le pene minori possa non esserci il carcere. Eppure l’articolo 27 della Costituzione dice in maniera inequivocabile al terzo comma: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e, spesso, si tratta di intervenire su realtà che la società ha emarginato in quanto non conformi al sistema: stranieri, tossicodipendenti, persone con disturbi psichici, in generale quindi con forme di marginalità economica, sociale, culturale e/o esistenziale.

Molto stretto è infatti il rapporto carcere e marginalità. Gran parte della popolazione carceraria attuale si trova nella situazione di detenzione sociale, un’espressione che sta a rappresentare chi è lì perché non ha trovato un’adeguata politica di accoglienza e di sostegno sul territorio, per reati minimali, sostanzialmente per condizioni di irregolarità sociale.

“La popolazione carceraria è costituita per circa il 35% da soggetti tossico dipendenti. Si tratta di detenuti che hanno commesso reati relativi allo spaccio di droga – perché per drogarsi sono costretti a spacciare -, oppure reati connessi, tipo la rapina e il furto. Il 40% - 45% della popolazione è costituito da extracomunitari”.

Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna, “Vendetta Pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza 2020).

Dal rapporto Antigone del marzo del 2021 risulta che la grande percentuale dei detenuti proviene dalle regioni del Centro Sud. “Conta pertanto sicuramente la condizione sociale ed economica di provenienza. Man mano che cresce la pena diminuisce la percentuale dei detenuti stranieri, segno, ancora una volta del minore spessore criminale e di un uso selettivo della giustizia penale”.

Di fondo sembra che in carcere ci vadano soprattutto coloro che non sono in linea con le norme culturali, con le quali si confrontano e dialogano le norme di legge, fatte esattamente per poter controllare comportamenti socialmente devianti. Nell’atteggiamento di fronte al reato c’è quindi un atteggiamento culturale, del quale fa parte anche il modo in cui una società si rapporta rispetto alle diversità, alle disuguaglianze.

Tutti gli studi sulla pena hanno evidenziato che ad un maggior rigore nelle pene corrisponde un maggior numero di recidive e ad oggi circa il 70% di coloro che entrano in carcere ci tornano in breve tempo, se non vengono previste adeguate esperienze di risocializzazione.

Secondo i due magistrati il concetto di pena deve essere integrato attraverso forme di rieducazione ma anche di conciliazione tra le parti. E’ ciò che si propongono la mediazione penale e la giustizia riparativa, una forma di valorizzazione della composizione dialogica dei conflitti. La restorative justice, infatti, punta sulla partecipazione attiva della vittima, del reo e della stessa comunità civile. In sostanza, anziché delegare allo Stato, sono gli stessi attori del reato a occuparsi di ovviare alle conseguenze del conflitto occupandosi della riparazione, della ricostruzione e della riconciliazione, con l'obiettivo non di punire, ma di rimuovere le conseguenze del reato attraverso l'incontro tra le parti e con l'assistenza di un mediatore terzo e imparziale. Un obiettivo alto, una sfida culturale impegnativa che spesso viene schiacciata sull’idea di perdono, o di indulgenza eccessiva verso i criminali. Invece essa richiede proprio una virata dello sguardo, un diverso modo di guardare alla Giustizia: nella visione corrente e nel sistema punitivo vigente nella maggior parte dei paesi, il reato, in quanto violazione della legge, è assimilabile a un’“offesa allo Stato”, prima che a una o più persone. Nella giustizia riparativa, invece, il reato è letto innanzitutto nella sua dimensione relazionale, come un conflitto interpersonale e sociale. La giustizia riparativa rinuncia ad aggiungere male al male (la sofferenza della pena alla sofferenza causata dal delitto) per destinare ogni energia utile alla reale tutela delle vittime, attraverso il percorso di riparazione, e insieme ad accompagnare il reo in un percorso di responsabilizzazione rispetto agli effetti delle proprie azioni.

La giustizia riparativa è solo su base volontaria delle parti e non può essere imposta alla vittima una ricomposizione pacifica del conflitto, se non se la sente. Va infine precisato che questo percorso, nel nostro ordinamento, non va a sostituirsi al modello di giustizia tradizionale nel quale lo Stato fa valere la sua pretesa sanzionatoria, ma si affianca ad esso in modo complementare, potendo certo poi influire semmai sul tipo di sanzione applicata.

Gli studenti hanno ascoltato con grande attenzione le argomentazioni dei due magistrati e numerose ed interessanti sono state le domande che hanno voluto spontaneamente rivolgere e a seguito delle quali hanno ricevuto ampie ed esaustive risposte.

Patrizia Lucangeli