Gli studenti dell’Istituto Bramante-Genga incontrano la realtà del carcere
“IL GRADO DI CIVILIZZAZIONE DI UNA SOCIETÀ
SI MISURA DALLE SUE PRIGIONI.”
FËDOR MICHAJLOVIČ DOSTOEVSKIJ
Una rilettura dell’evento a cura di Patrizia Lucangeli
Nella nostra scuola si è costituito un gruppo di docenti, di dipartimenti diversi, interessati ad una riflessione sul tema della pena, della detenzione e degli aspetti storici, giuridici, umani sottesi a questi temi.
Oltre al lavoro con gli studenti, l’attività prevede alcune letture, film ed incontri.
Nel mese di Novembre abbiamo avuto l’occasione di un interessante incontro con il Dr. De Vito e il Dr. Gianfilippi, due magistrati di sorveglianza, che hanno presentato agli studenti la figura, il ruolo ed i compiti del magistrato di sorveglianza, ovvero di quella parte della magistratura che funzionalmente si occupa della sorveglianza sull’esecuzione della pena (diritto dell’esecuzione penale).
Il nove dicembre abbiamo ospitato un gruppo di ospiti afferenti, a titolo diverso, alla realtà della Casa circondariale di Pesaro: la dottoressa Enrichetta Villella - Responsabile Area Trattamentale – Casa Circondariale di Pesaro ed autrice del romanzo “La Chiave di cioccolata”. Stefano Danti, un maestro elementare in pensione che ha lavorato per 27 anni negli istituti di pena di Fossombrone prima e di Pesaro poi. E Clemente, un ex detenuto, recluso per parecchi anni, poi ammesso al regime della semilibertà (lavoro diurno e rientro in carcere per la notte) e da un anno in regime di libertà condizionale ed impiegato presso una cooperativa sociale.
A Febbraio la scuola ospiterà la dottoressa Cosima Buccoliero vice direttrice, direttrice a Milano del carcere modello di Bollate, direttrice di Opera, poi del minorile Beccaria, e oggi reggente del circondariale Lorusso e Cotugno a Torino. Ed autrice, con l'aiuto di Serena Uccello, di Senza sbarre. Storia di un carcere aperto (Einaudi), in cui ha raccontato trent'anni di vita, carriera, emozioni ed il suo sogno di una riforma radicale dell'attuale sistema detentivo.
PERCHE’ PARLARE DEL CARCERE, A SCUOLA?
La risposta a questa domanda richiede uno spoiler: alla fine dell’incontro alcuni ragazzi sono venuti accanto al tavolo dei relatori ed hanno voluto ringraziare e stringere la mano agli ospiti.
Nessuno glielo aveva chiesto né suggerito: hanno semplicemente avuto un moto spontaneo dell’animo, quei sommovimenti di crescita che sono scatti evolutivi della persona ed insieme, si spera, della società e del nostro tempo.
E poi c’è la risposta ufficiale: per dare un contributo concreto all’acquisizione di conoscenza, competenze e atteggiamenti che siano di sostegno ai giovani per diventare cittadini e cittadine consapevoli del valore della legalità, della democrazia e dei principi costituzionali.
DA DOVE INIZIAMO?
La prima pubblicazione del saggio “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria apparve, anonima, nel 1764. Anonima, perché l’argomento era scabroso e la tesi espressa dall’autore era, per l’epoca, rivoluzionaria. Gli Illuministi dell’Accademia dei Pugni, Verri e Beccaria in primis, vollero infatti ragionare sui principi della punizione inferta dalla legge verso chi commetta qualche reato. Beccaria riteneva che le pene dovessero essere finalizzate sia ad impedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe e soprattutto che esse dovessero servire alla rieducazione del detenuto.
Nell’incipit della celebre opera l’autore esordisce infatti ricollegandosi all’idea del contratto sociale, specificando che “le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere di una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità”. Per conservare questo stato di sicurezza e tranquillità bisognava trovare il modo di difenderlo dalle “private usurpazioni di ciascun uomo (…). Vi volevano dei motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società”. Secondo Beccaria questi “motivi sensibili” sono proprio le pene stabilite contro chi infrange le leggi.
L’autore considera all’origine della pena la necessità di garantire la sicurezza di quello stato in cui l’uomo aveva accettato di vivere sacrificando la minima porzione possibile della sua libertà naturale.
- Per questo spetta legittimamente allo Stato il diritto di punire i cittadini.
- In seguito Beccaria entra nella questione della crudeltà delle pene, ribadendo che la legge deve stabilire una pena la cui durezza sia la minima necessaria al raggiungimento dello scopo, che è l’utile sociale.
- Infine la pena deve servire ad evitare che il medesimo compia in futuro altri reati: “l’effetto di prevenzione deve essere volto a perseguire la risocializzazione del reo.
CONSIDERAZIONI SPARSE
Sono passati moltissimi anni, eppure sono ancora parecchi quelli del “Buttiamo la chiave!”, quelli che chiedono condanne dure ed esemplari e più carceri. Noi che siamo fuori ci sentiamo Abele, mentre ci convinciamo che dentro le carceri ci siano solo i Caino. Una visione manichea del mondo dove tutto o è bianco o è nero, dove il Bene ed il Male sono chiaramente distinti; una prospettiva rassicurante ma superficiale e bidimensionale.
La realtà infatti è quasi sempre molto più sfaccettata e complessa.
Come sosteneva Jung, è necessario prendere consapevolezza della nostra ombra mettendola a confronto con la nostra parte conscia, con la nostra “etica”, che deve ovviamente imporsi, ma senza la pretesa di essere considerata inattaccabile. Una volta soddisfatti i bisogni primari, l’uomo infatti abbandona la sua natura predatoria e diventa disponibile a forme di collaborazione e di cooperazione, che poi si evolvono fino a stili di condotta basati sull’altruismo prosociale, quelli cioè che non comportano l’ottenimento di una ricompensa evidente ma che generano appagamento in quanto rientrano in una forma di giustizia che rispetta e legittima le regole sociali e l’appartenenza al sistema. Questo però non accade sempre e non accade per tutti. E la trasgressione delle suddette regole non è un evento eccezionale.
Una catalogazione di “buoni” e “cattivi” rigida, dunque, non è razionale né realistica, e ciò è stato dimostrato da parecchi esperimenti.
I più noti sono quelli di Milgram, del 1963, che dimostrò come tendenzialmente l'essere umano obbedisca all'autorità anche nel caso in cui debba far del male all'altro, e quello di Stanford.
Nel 1971, lo psicologo statunitense Philip Zimbardo fece un esperimento, ricordato come l’esperimento carcerario di Stanford, in cui simulò con un gruppo di volontari la realtà carceraria. Questi volontari erano tutti persone irreprensibili e vennero casualmente divisi in due gruppi: carcerieri e carcerati. L’esperimento dovette essere sospeso dopo pochi giorni perché le guardie avevano assunto un comportamento violento e vessatorio nei confronti dei carcerati.
Le conclusioni a cui anche Zimbardo, come Milgram, arrivò furono che se si ritenevano autorizzati a comportamenti aggressivi da un’autorità superiore, i soggetti si sentivano deresponsabilizzati dalle loro azioni ed autorizzati a compiere atti riprovevoli che mai avrebbero compiuto se avessero agito in maniera individuale.
Il male non è sempre intenzionale e volontario, a volte le persone pensano di avere delle giustificazioni per quello che hanno fatto, si danno degli alibi, che spesso consistono nella demonizzazione del nemico ed anche le circostanze, e i contesti, possono influire e far cambiare i punti di vista in base ai quali un comportamento è giudicato cattivo oppure no.
I DATI
Le riflessioni ed i riferimenti delle righe precedenti non devono ovviamente rimescolare le acque fino a renderle torbide: non dobbiamo fare a meno della chiarezza e limpidezza di un ragionamento razionale sui reati e le loro responsabilità.
Riflettere in modo ampio non significa attenuare o giustificare le condotte di chi ha commesso reati e la certezza della pena deve essere un saldo pilastro di una società civile. Certezza che non significa durezza, ed il senso dell’Art. 27 della nostra Costituzione, laddove afferma che: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” non si traduce con “necessità dell’afflizione” ma con “obiettivo del ravvedimento”. La rieducazione è il fine ideale della pena, e lo Stato, durante l’esecuzione della stessa, dovrebbe creare le condizioni necessarie affinché il condannato possa reinserirsi nella società in modo dignitoso mettendolo in condizioni, una volta libero, di non commettere nuovi reati. Tale finalità fu introdotta proprio per salvaguardare la dignità umana quale diritto fondamentale dell’uomo in quanto tale. Ma nella realtà delle carceri italiane accade davvero questo?
Lasciamo parlare i dati. Li ricaveremo dall’Associazione Antigone che da più di vent’anni, autorizzata dal ministero della Giustizia, visita i 190 istituti di pena italiani e ne analizza i parametri.
DATI ANTIGONE 2022
TRATTI DAL PORTALE DI ANTIGONE SULLE CONDIZIONI DI DETENZIONE 2022 E DALL’INCHIESTA “LA CALDA ESTATE DELLE CARCERI: RAPPORTO DI METÀ ANNO SULLE CONDIZIONI DI DETENZIONE IN ITALIA” 28 LUGLIO 2022
LE PRESENZE
- Nel 2022 il tasso di affollamento ufficiale medio è del 107,4%.
- Il totale dei presenti, drasticamente sceso durante il primo anno della pandemia, è tornato a crescere. Si è passati dalle 53.364 presenze della fine del 2020 alle 134 della fine del 2021. A fine Marzo i detenuti nelle nostre carceri erano 54.609. Le donne erano 2.276, il 4,2% dei presenti, gli stranieri 17.104, il 31,3% dei presenti.
- Negli ultimi anni si è registrato un innalzamento dell’età media della popolazione detenuta. I detenuti con meno di 40 anni di età, che sono stati a lungo maggioranza tra la popolazione detenuta, dal 2015 sono minoranza.
- É cambiata anche la posizione giuridica dei detenuti. Da tempo infatti si registra una costante tendenza alla riduzione del ricorso alla custodia cautelare e dunque in proporzione alla crescita tra i presenti di persone con una condanna definitiva. Erano il 69,6% dei presenti al 31 dicembre 2021, mentre 10 anni prima erano il 56,9%.
Dunque i detenuti sono sempre più in là con gli anni, sono sempre più spesso definitivi e scontano condanne sempre più lunghe, con tutte le implicazioni che questo comporta sia in termini di domanda di salute sia in termini di opportunità di reinserimento.
GLI AMBIENTI:
- GLI ISTITUTI DETENTIVI
Una prima caratteristica da segnalare degli istituti detentivi è la loro età, decisamente avanzata.
Il 39% di tutti gli istituti visitati nel 2021 è stato costruito prima del 1950, il 26% prima del 1900. Si tratta di strutture talvolta molto antiche, che prima di essere carceri sono stati conventi o caserme, e che presentano limiti notevoli sia dal punto di vista degli spazi detentivi che da quello degli spazi comuni o per le attività.
- LE CELLE
In molti degli istituti ci sono ancora celle che non rispettano le condizioni previste circa la presenza di docce, riscaldamento ed acqua calda.
Nel 5% degli istituti visitati ci sono ancora celle in cui il wc non è in un ambiente separato, isolato da una porta, ma in un angolo della cella.
Da segnalare inoltre il fatto che, nel 25% degli istituti visitati, abbiamo trovato celle in cui non apparivano garantiti 3 metri quadri calpestabili per ciascun detenuto, creando condizioni di affollamento evidentemente invivibili.
- GLI SPAZI COMUNI
Anche questi purtroppo spesso inadeguati. In più di un terzo degli istituti i detenuti non hanno accesso settimanalmente alla palestra o al campo sportivo, perché questi non ci sono o non sono agibili.
Mancano spazi per le lavorazioni nel 32% degli istituti che abbiamo visitato, percentuale che sale al 45% negli istituti più vecchi.
Nel 17% degli istituti visitati ci sono sezioni che non hanno spazi per la socialità. Chi può esce dalla sezione per andare a svolgere qualche attività, mentre gli altri se va bene passeggiano nel corridoio, altrimenti passano in cella tutta la giornata.
Infine nel 35% degli istituti visitati mancava o non era in funzione un’area verde per i colloqui all’aperto con i familiari.
LE ATTIVITÀ RISOCIALIZZANTI
Nel 43 per cento dei penitenziari al momento della visita non c’erano corsi di formazione professionale attivi.
Solo un detenuto su 5 va a scuola in carcere.
Il tasso di occupazione è del 30 per cento e appena l’1,7 per cento dei detenuti lavora dentro gli istituti per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria.
LE RECIDIVE
Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38% era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato addirittura 5 o più volte.
La percentuale di chi ci è stato più volte cala per gli stranieri, ma sale per gli italiani, per i quali si immagina invece che i percorsi di reinserimento sociale siano più facili. E questo quadro del numero di carcerazioni precedenti delle persone detenute parla comunque da sè: le persone tornano troppo spesso in carcere.
STRANIERI
Secondo i dati aggiornati al 30 giugno 2022 sono 54.841 le persone detenute negli istituti di pena. Di questi 2.314 sono donne e 17.182 stranieri. La distribuzione della popolazione reclusa straniera negli istituti penitenziari italiani non è però omogenea.
DROGHE E DIPENDENZE
Il 34,8% dei detenuti è in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti. Percentuale doppia rispetto alla media europea L’Italia detiene ancora il primato in Europa per numero di persone detenute per violazione della normativa in materia di stupefacenti (DPR 309/90), in percentuale quasi doppia rispetto alla media europea (18%) e mondiale (21,6%).
DONNE IN CARCERE
In crescita il numero dei bambini reclusi con le loro madri. Sono 25 i bambini sotto i tre anni con le madri detenute. Erano 2.314 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 30 giugno 2022, pari al 4.2% del totale della popolazione detenuta.
MINORENNI
Ragazzi dentro: crescono le presenze nelle carceri minorili. Sono 381 i giovani reclusi nei 16 Istituti Penali per Minorenni d’Italia attualmente attivi. Le comunità ospitano 921 ragazzi sottoposti a misure penali, di cui solo 22 sono alloggiati in comunità pubbliche gestite dal Ministero della Giustizia. 3.100 i giovani in messa alla prova. Le carceri di Torino (45), Nisida (44) e Bologna (42) sono le più grandi quanto a numero di ospiti. Il carcere di Pontremoli, unico carcere minorile esclusivamente femminile d’Italia, ospita al momento 10 ragazzi, di cui molte appena quattordicenni.
LAVORO
Lavora poco più di un terzo della popolazione detenuta, ma non a tempo pieno.Si tratta prevalentemente di lavori a tempo ridotto. Tra coloro che lavorano, l’88% (16.930) è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e il restante circa 12% (2.305) lavora per datori di lavoro esterni.
STUDIO
I tassi di alfabetizzazione sono molto bassi. L’istruzione è un’attività trattamentale fondamentale per le persone detenute perché può rappresentare una via d’uscita dai percorsi di criminalità. In carcere il livello di scolarizzazione di partenza dei detenuti è generalmente assai più basso rispetto alla media nazionale. Fra i detenuti di cui è stato rilevato il titolo di studio (circa la metà dei presenti il 30 giugno 2022), il 5% è analfabeta o non ha un titolo di studio, il 17% ha la licenza elementare, il 57% la licenza di scuola media inferiore e il 16% un diploma di scuola media superiore. Soltanto il 2% ha un diploma professionale e un altro 2% una laurea. 19 detenuti si sono laureati. Nel 2021 19 detenuti (18 uomini e 1 donna) si sono laureati mentre si trovavano in carcere.
SUICIDI
Più allarmante il dato riguardante i suicidi, Nel 2022 in carcere si è registrato il tasso più alto di suicidi degli ultimi 10 anni. Dal 2012 si sono uccise 583 persone, 79 quest'anno di cui 74 erano uomini e 5 donne: quasi la metà erano persone con fragilità personali o sociali. In carcere ci si leva la vita ben 16 volte di più rispetto alla società esterna.
SERVONO QUINDI PIU CARCERI?
Spesso si finge di credere che la soluzione al problema del sovraffollamento sia la costruzione di nuove carceri.
La verità è che lo spazio, o la sua mancanza, è solo uno dei fattori che vanno considerati quando si parla di sovraffollamento. Per ospitare in maniera dignitosa le persone detenute non serve solo spazio, ma anche personale, attività, opportunità trattamentali, risposte alla domanda di salute o a quella di inclusione sociale. Dove queste risorse non sono adeguate alle presenze il carcere andrebbe considerato sovraffollato comunque, anche se il mero spazio fisico fosse sufficiente. E quando si creano nuovi spazi detentivi bisogna poi riempirli di tutti questi contenuti. Altrimenti accade quello che purtroppo ci dicono i dati presentati.
“Il carcere così strutturato diventa una istituzione deresponsabilizzante, dove il periodo della detenzione è contrassegnato per lo più da un ozio forzato che fa sprecare il tempo che dovrebbe essere invece impiegato per la risocializzazione e per un vero ripensamento della propria vita”.
“Prima della galera, ero un povero contadino,
pochissimo intelligente, una specie d'idiota;
la galera m'ha cambiato.
Ero stupido e sono diventato malvagio;
ero un ceppo e sono diventato tizzone.”
VICTOR HUGO
L’UNIVERSITÀ DEL CRIMINE
Appare quindi chiaro che un sistema carcerario disfunzionale non sarà in grado di rieducare e risocializzare il detenuto ma anzi lo abbrutirà ancora di più, rappresenterà una cosiddetta “università del crimine” comportando quindi un meccanismo “a porta girevole” per cui questi entrerà ed uscirà più volte dal carcere rappresentando perciò un peso e non una risorsa per la società.
Inoltre, se il detenuto viene vittimizzato, come potrà riflettere sul suo ruolo di carnefice? Se il detenuto è assorbito nelle sue sofferenze ed ingiustizie quotidiane, come potrà dedicare uno spazio mentale adeguato rispetto al male che ha fatto?
E proprio da questi ultimi due spunti vorrei partire perché sono temi affrontati nell’incontro che i nostri studenti hanno avuto con alcune realtà che, a diverso titolo, operano, vivo o hanno vissuto il carcere:
La dottoressa Enrichetta Villella - Responsabile Area Trattamentale – Casa Circondariale di Pesaro ed autrice del romanzo “La Chiave di cioccolata”. E’ così che le detenute chiamano la chiave che chiude la loro cella e che dopo diversi giri si scioglie per non aprirsi più.
Stefano Danti, un maestro elementare in pensione che ha lavorato per 27 anni negli istituti di pena di Fossombrone prima e di Pesaro poi. Grazie a questa esperienza nel 1989 ha aperto e coordinato il Centro di accoglienza per persone provenienti dal carcere, Casa Paci, e successivamente l’associazione ISAIA, volontari col carcere.
Clemente, un ex detenuto, recluso per circa 40 anni per aver militato negli anni Settanta, nei movimenti politici della Sinistra fino alla lotta armata e successivamente per coinvolgimenti con la criminalità organizzata. Negli ultimi anni di pena è stato ammesso al regime della semilibertà (lavoro diurno e rientro in carcere per la notte), ma da un anno gode della libertà condizionale ed è impiegato presso una cooperativa sociale.
La presentazione della dottoressa Vilella, ampia e chiara, ha fornito ai ragazzi delle conoscenze di base, ad esempio sul tema della giustizia riparativa, e degli importanti spunti di riflessione sul senso del carcere. Ha spiegato che alla detenzione si può guardare in modo diverso, spostando lo sguardo dal reo alla vittima, o almeno su entrambi, con una visione che consenta, attraverso la scelta volontaria di un incontro, un superamento del male, del dolore, del reato. Affinché ciò avvenga è fondamentale il ruolo della comunità esterna, serve cioè una cultura della partecipazione più che della obbedienza. Citando Gherardo Colombo ha ricordato che con l’obbedienza si fanno i sudditi, ma per fare dei cittadini serve invece la partecipazione, che è resa possibile solo se c’è una comunità disponibile, pronta all’accoglienza ed al reinserimento, consapevole che i reati non riguardino solo il carcere ma l’intera comunità, che deve garantire l’effettiva capacità del condannato di reinserirsi pienamente nella società dopo aver espiato la condanna. Se ciò non si verifica l’unica scelta che questi potrà intraprendere sarà quella di vivere ai margini della legalità, creando così un terreno fertile per la formazione di un bacino di manovalanza della malavita. Nel sistema penitenziario italiano è in parte ancora predominante la funziona oppressiva anziché quella rieducativa. Il condannato in carcere è vessato, come abbiamo visto, dal sovraffollamento e da condizioni igienico sanitarie al limite, i progetti scolastici e lavorativi efficienti sono presenti in poche virtuose realtà del tutto non rappresentative del panorama carcerario italiano, tutto ciò aumenta la tendenza alla recidività, minando la sicurezza dei cittadini e la stessa logica degli investimenti economici in un sistema detentivo che funziona solo in piccola parte.
Stefano Danti ha raccontato la sua esperienza di insegnante nelle carceri: dal primo momento, ricordato come contrassegnato dalla paura e da una forte diffidenza verso quelli che credeva fossero “altri” rispetto agli individui della vita fuori, fino alla caduta delle sbarre mentali, quando ha imparato a guardare ai suoi alunni semplicemente come uomini, che avevano commesso sbagli per i quali ora stavano scontando una pena, senza più alcuna alterità a far da confine. Ha parlato anche delle loro paure, spesso tante forti da far temere più la prospettiva della scarcerazione e della libertà che la reclusione stessa. Ha descritto il carcere come un genitore, ingombrante ed autoritario, ma comunque rassicurante rispetto al vuoto di prospettive e relazioni che attende fuori molti di loro.
Anche Clemente ha parlato della infantilizzazione che il carcere provoca: un universo fortemente normato, in cui tutto accade previa domandina, richiesta di autorizzazione, quasi deresponsabilizzando chi vi permane per lunghi periodi. Un mondo a sé, che non dialoga con quello fuori, fanno eccezione esperienze felici rese tali da occasioni fortuite: un direttore illuminato, figure dedicate alle attività risocializzanti e ai rapporti con l’esterno, volontari… Queste possono rendere l’esperienza della detenzione meno alienante, anche se resta sempre la fatica delle relazioni con gli altri carcerati, spesso difficili, e con i propri affetti fuori. Pungolato dalle numerose domande dei ragazzi, dirette, sincere e a volte spiazzanti, ha raccontato del suo senso di colpa, del rimorso, del dispiacere che da sempre lo accompagna, e per sempre lo accompagnerà, di aver reso complicata la vita di sua moglie, dei suoi genitori, dei suoi figli. Ha parlato dei suoi momenti di sconforto e di disperazione, del ruolo fondamentale che hanno avuto nel suo percorso persone come i due relatori ora seduti accanto a lui, verso i quali ha in più occasioni espresso parole di gratitudine e stima profonda. Ha spiegato quanto ti salvi la vita avere qualcuno e qualcosa che ti aspetta fuori, quanto l’avere una prospettiva di risocializzazione consenta di non sentirsi vittima di ingiustizia o di eccesso di pena, quanto permetta di riflettere sui propri errori che lui non ha mai negato anche se i termini utilizzati per riferirsi a dei reati spesso sono sembrati, alla platea, impropri o riduttivi. Ha detto che senza una luce, in fondo al tunnel esiste solo la disperazione cieca che impedisce perfino il ravvedimento, perché ogni cosa sembra perdere significato se non ci sarà mai più la possibilità di mettersi in gioco nel mondo fuori.
Due ore sono volate così. Le domande degli studenti si succedevano, una dopo l’altra: serrate, intense, forti. I ragazzi hanno fatto esperienza dell’altro; hanno visto un uomo, un padre, un tifoso milanista, una persona che ha una storia pesante alle spalle di cui è oggi consapevole e pentita, ma che si sente quasi in pari col mondo perché ritiene di aver pagato un prezzo adeguato ed è convinto che quel pagamento lo abbia reso una persona migliore. C’è stato un lungo applauso, spontaneo e scrosciante, quando Clemente ha detto che ora ogni regola è per lui sacra, e che chiede ai suoi figli di rispettarle tutte, di non fare i suoi errori, di essere migliori di lui. I ragazzi hanno bisogno di risposte dirette, e questa li ha rassicurati. Come un girovagare che conduce ad una meta, come un perdersi per poi ritrovarsi, come una luce che rischiari il buio.