Il Bramante-Genga incontra Vito Fiorino, un giusto fra le nazioni

«Se mi fosse concesso dai fati di condurre la vita come vorrei

e disporre le cose secondo ciò che mi piace,

ora sarei a Troia tra i cari resti dei miei,

alta ancor sorgerebbe la rocca di Priamo:

ai vinti io, di mia mano, avrei levato una Pergamo nuova»

(Eneide, IV: 340-345).

 

 

“Sono un migrante anch’io”. Così Vito Fiorino, soccorritore nel drammatico naufragio avvenuto a Lampedusa nel 2013, ha iniziato il suo racconto appassionato, intenso, a tratti commovente.

L’incontro con questa toccante testimonianza fa parte di un ciclo di eventi ed esperienze che sono nati nell’ambito del progetto Semi di Lampedusa, la rete di scuole a cui il Bramante Genga ha aderito dall’anno scolastico in corso e che mira a rafforzare la consapevolezza dei giovani sui temi del fenomeno migratorio, promuovendo una cultura di solidarietà, accoglienza e dialogo. La scuola capofila di Semi di Lampedusa è il Liceo scientifico Marconi, che ringraziamo per aver ospitato nella loro Aula magna i nostri studenti e per averci dato l’opportunità di ascoltare la preziosa testimonianza di un uomo come Vito, che nel 2018 è stato riconosciuto Giusto fra le nazioni. “Un Giusto è una persona che, salvandone un’altra, salva tutto il mondo”, sostiene Fiorino. “Ne sono onorato, ma non mi sento un eroe”.

sotto lo stesso cielo

Nato a Bari, figlio di migranti trasferitisi a Milano dove il padre lavora come falegname in uno scantinato che è anche la loro abitazione, Vito racconta di essere cresciuto nelle difficoltà che incontravano tutti i meridionali che in quegli anni Cinquanta si trasferivano al Nord: la povertà, le discriminazioni, l’etichetta di diversi, di “terroni”. Dopo la scuola sceglierà di proseguire il lavoro del padre, nonostante la contrarietà del genitore che con tanti sacrifici lo aveva fatto studiare e che sperava per il futuro del figlio una professione più impiegatizia. Il legno invece diventerà la sua passione, poi la sua attività ed infine un’impresa di un certo livello che lo porterà a viaggiare in Italia e in Europa, titolare di un’azienda con diversi dipendenti.

DETERMINAZIONE” dice Vito, e sottolinea più volte ai ragazzi questa parola-chiavistello, per lui indispensabile strumento per imparare a vivere. E’ dunque un imprenditore, Vito, e lavora con i ritmi frenetici della società milanese fino a quando una settimana di vacanza gli favorisce un incontro “di natura sentimentale” che lo porterà ad un radicale cambiamento di vita. L’innamoramento però non era per una donna, ma per un’isola di straordinaria bellezza: Lampedusa, una terra che lo aveva incantato al punto di fargli decidere di trasferirvisi, di chiudere l’impresa milanese e di iniziare una vita diversa. Dopo pochi mesi Vito diventerà un cittadino lampedusano, proprietario di una gelateria, con tanti amici, più tempo libero ed una qualità esistenziale decisamente migliore.

Il destino però gioca ancora con lui. Dopo l’incantesimo di Lampedusa lo mette di fronte ad un altro fondamentale incontro: quello con La nuova speranza, una barca malmessa, tutta da risistemare, a cui Vito dedicherà tempo ed amore fino a renderla una dignitosissima imbarcazione alla quale aggiungerà il nome di Gamar, le lettere iniziali dei nomi dei suoi amatissimi nipoti Gabriel e Martina. È un altro bel regalo della vita, Gamar, che Vito condivide con i nipoti, quando sono in vacanza da lui, e con i suoi amici. Con questi ultimi spesso organizza di trovarsi a tarda sera, dopo il lavoro, per stare insieme, per mangiare, bere e fare una battuta di pesca. Così anche quella sera.

Quella sera era il 2 ottobre 2012; una notte calda, tanto da fare il bagno a mezzanotte e restare svegli per godersi quel mare calmo e quell’aria tiepida fino a tardi. Il buio intorno, non c’era la luna, solo tante stelle e silenzio. A svegliarlo, racconta, fu uno degli amici che, in siciliano… “Sento un vusciari, sembrano voci, lamenti…”, gli dice, ma fuori c’erano solo i gabbiani, forse era il loro garrito quello che si sentiva; i fanali della barca e le torce non mostravano barche vicine. Ma il vusciari non si spegne; decidono così di avanzare lentamente in quella direzione e presto, poche centinaia di metri più avanti, si trovano al centro di uno scenario inimmaginabile, tragico: centinaia di persone in mare che piangevano, gridavano, agitavano le braccia e chiedevano aiuto. Naufraghi, più di duecento, e neppure una barca all’orizzonte. Parte immediata la richiesta di soccorsi ma il tempo di aspettarli senza agire non c’è. Lo sbalordimento, lo sgomento, il terrore, la paura…chissà quante emozioni si sono accavallate in quel momento nel cuore di quegli otto amici che stavano riposando dopo una spensierata serata in mare.

La PAURA, è la seconda parola talismano che Vito vuol regalare agli studenti: quell’istinto che sa proteggerti, frenarti, ma che a volte va combattuto e contrastato perché serve il coraggio, perché non c’è tempo per riflettere e scegliere. Quel mare che poche ore prima appariva rasserenante e sicuro, ora era il nemico che avviluppava i corpi stremati di uomini, donne e bambini e li trascinava giù, negli abissi. Vito e i suoi amici iniziano ad issare in barca quelli che riescono ad afferrare; non è facile, i loro corpi sono nudi e scivolosi per il gasolio che era fuoriuscito dalla barca, sgusciano via dalle mani, ricadono in acqua e si deve ricominciare daccapo. I primi salvati raccontano in un inglese stentato che erano in acqua da circa tre ore, che erano partiti in più di cinquecento, che la loro imbarcazione era affondata a seguito di un incendio che era stato provocato da un tentativo di attirare l’attenzione delle barche che intravvedevano in lontananza con una coperta a cui era stato dato fuoco con il gasolio e che agitavano in aria... un brandello si era staccato e l’incendio era divampato velocemente con tutte le conseguenze immaginabili.

Trecentosessantotto di loro moriranno, in quella notte di ottobre: in quell’incendio, in quel naufragio, in quel mare, in quell’indifferenza. L’indifferenza dei mezzi della Guardia di Finanza che li aveva avvistati prima della tragedia e che aveva comunicato che sarebbero intervenuti sì, ma l’indomani mattina. L’indifferenza degli uomini a bordo della motovedetta della Capitaneria che alle richieste di Vito di trasbordare i 47 naufraghi che erano riusciti a caricare sulla Gamar, sfidando ogni limite di sopportazione del mezzo destinato al massimo a nove persone, per poterne salvare altre, avevano risposto “Il protocollo non lo consente”.

INDIFFERENZA è la terza parola. Affidarsi ai protocolli e non all’umanità, è indifferenza; non prendersi cura dell’altro è indifferenza; rimandare un soccorso, girarsi dall’altra parte, abbandonarsi alla paura che ti fa fuggire, all’egoismo di chi si sente al sicuro, al posto giusto del mondo.

Dalla baia della Tabaccara, luogo del naufragio, la Gamar-Nuova speranza rientrerà in porto con 47 vite salvate, la più giovane delle quali era un ragazzino di soli tredici anni, partito da casa due anni prima, quando era ancora un bambino, per cercare una speranza di futuro sfidando il deserto ed il mare. In quel mare in cui restarono 368 sogni spezzati, tra i quali quello di una giovane madre recuperata in fondo agli abissi, giorni dopo, che aveva ancora attaccato al suo corpo con il cordone ombelicale il bimbo appena partorito. Una settimana dopo, nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa si sono svolti i loro funerali. I parenti piangevano nella disperazione, i sopravvissuti si stringevano uno all’altro e nel loro dolore la fratellanza aveva trovato un padre. Father, così da allora chiamano Vito e da allora le loro vite sono rimaste inanellate; dal nord Europa, in cui quasi tutti oggi vivono, non smettono di ricordargli ogni giorno quanto gli siano grati, quanto lo amino, quanto sentano il bisogno continuo di ringraziarlo per aver dato loro, come un padre, una possibilità di vita quando tutto sembrava irrimediabilmente perduto.

AMORE, quarta parola. L’amore che ogni anno il 3 Ottobre li riporta a Lampedusa, con le mogli e i mariti, con i figli che in questi anni hanno avuto, per commemorare la tragedia dalla quale sono scampati ed i compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta. A loro dedicano un pensiero, una preghiera ed una rosa, lanciandola nel mare, ed in quel gesto c’è tutto quello che le lingue spesso non sanno tradurre. L’amore che li ha resi una grande famiglia, dai legami indissolubili. L’amore per Vito che riceve ogni giorno foto di nuovi nati, di vite felici, di esistenze appaganti e serene.

Infine, il SOGNO, quinta parola, perché una vita senza sogni è monca. Ciò che ci spinge a muoverci, a cambiare, ad osare, spesso non è il coraggio, ma sono proprio i sogni. E Vito ha realizzato il suo: ridare un nome a quei morti, cancellare il numero che identificava le loro sepolture, restituire loro il diritto ad essere riconosciuti per ciò che erano stati prima di diventare migranti, profughi, naufraghi, dispersi, deceduti…Recuperate le loro storie, insieme a Gariwo ha fatto costruire un memoriale che è stato inaugurato il 3 ottobre 2023, alle 3.15 di notte, l’ora del naufragio. Il monumento rappresenta lo scheletro di una barca inghiottita dal mare, con dei legni ad evocare le braccia che chiedono aiuto, e riporta 366 nomi degli uomini, delle donne, dei bambini che quella notte abbiamo perso nel mare della Tabaccara. Due vittime sono rimaste senza nome, non è stato possibile neppure salvarle dall’anonimato.

Il memoriale si chiama Nuova speranza.

SPERANZA è l’ultima parola con cui Vito ci saluta. Nuova, come il nome di quella vecchia barca, perché da ogni cosa anche minima può nascere il cambiamento, da ogni incontro, da ogni gesto, da ogni parola. Ogni volta che ci ricordiamo di essere umani.

Patrizia Lucangeli.

sotto lo stesso cielo 

Riportiamo qui di seguito le sensazioni di un alunno presente all'incontro.

 

Pensiero su Vito Fiorino e l’immigrazione

Un filo di voce interrotto da una pausa per bere, in quel silenzio si percepisce più che in qualsiasi altro momento la paura, il trauma, la ferita mai chiusa che continua a essere viva. I lamenti di ogni persona, 368. Negli occhi marroni come il cioccolato é dipinto il ritratto di un mare perentorio, che non fa sconti, quasi nasconde il vero colpevole di tutto questo male: l’uomo. Questo è il racconto di un uomo che non girò la testa dall’altra parte, che si interessò di una vita, anzi di 368. Vito Fiorino é, prima di un giusto, un uomo speciale, che da anni ormai presenzia nelle scuole per raccontare la sua storia, per raccontare la lotta contro l’indifferenza, che nell’ambito dell’immigrazione é, ahimé, un pilastro fondante.

Tutte quelle povere persone che hanno avuto solo la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata del mondo, parte del mondo povera, in guerra, con regimi governativi rudi, disumani, antichi e che non trovano casa negli ideali di queste persone, ma che sono obbligate o a sottostarne oppure a “tentar l’impresa” di fuggire da tutto questo male e povertà per approdare in paesi che possano dare loro una “seconda” vita e una casa migliore rispetto alla distopica realtà nella quale sono nati.

Il problema dell’immigrazione è un problema attuale, presente; problema di fronte al quale non bisogna rimanere indifferenti, ognuno deve fare la sua parte, prendere in mano la situazione e migliorarla. Come? Per cominciare basterebbe solo essere più accoglienti e determinati come fecero Vito e i suoi compagni quella mattina. La nostra società sotto questo punto di vista è ancora troppo arretrata, questa arretratezza é figlia dell’ignoranza, sorella di un’elasticità mentale troppo ristretta e per far sì che, persone che tentino l’ultima possibilità, l’ultima spiaggia, possano avere una vita migliore dipende da noi e dai nostri piccoli gesti.

Per far sì che queste persone vengano aiutate e non siano trascurate, è fondamentale promuovere la comprensione culturale e l’inclusività. Offrire programmi di orientamento e supporto linguistico possono facilitare l’adattamento. Creare comunità accoglienti, promuovendo eventi e iniziative che favoriscano l’integrazione, contribuisce a rompere le barriere. Infine, educare la società sull’importanza della diversità e combattere stereotipi aiuta a creare un ambiente più inclusivo per tutti.

La cosa che più mi fa gelare il sangue in queste situazioni è sapere che, oltre a padri e madri di famiglia, tentino la traversata anche bambini, bambini il più delle volte appena dodicenni; ciò testimonia quanto sia necessario e importante non trascurare, e soprattutto non negare, un aiuto, aiuto che sarebbe potuto servire a noi, se madre natura ci avesse fatto nascere in quella parte di mondo.

Se c’è una mano tesa, che cerca aiuto, sommersa da tutto quel blu e noi facciamo orecchie da mercante, beh allora meriteremmo noi una situazione simile.