Il nostro viaggio in Bosnia

Tra cimiteri e cani randagi che giocano

A settembre, dopo il rientro a scuola, la nostra prof di italiano ha lanciato alla classe una proposta: un viaggio in Bosnia come gita scolastica e un progetto associato. Le perplessità sono state tante e nessuno si è impegnato a nasconderle. “Ma cosa andate a fare in Bosnia?” era la domanda più gettonata tra le incredule famiglie. Intanto però il progetto ha preso forma e noi siamo stati coinvolti. Abbiamo iniziato a conoscere i volontari dell’associazione Lutva tramite degli incontri riguardanti la storia di questo paese a noi sconosciuto e abbiamo iniziato un percorso volto a conoscere e comprendere il suo contesto, per poter essere abbastanza preparati per la partenza. Dai primi due incontri ne siamo usciti un po’ nauseati ed allibiti; ci chiedevamo come fosse possibile che fosse successa una simile tragedia a così poca distanza da noi, un’intera guerra, piena di violenza e disumanità è passata sotto i nostri occhi e noi a malapena abbiamo alzato lo sguardo. Però non ci siamo fermati qui. L’associazione e la scuola hanno fatto in modo di darci una preparazione completa per affrontare quei luoghi. Abbiamo letto il libro “Dieci prugne ai fascisti” che ci ha avvicinato agli eventi e ci ha fatto percepire le conseguenze umane lasciate dalla guerra, oltre a quelle economiche e sociali, grazie anche alla relativa discussione sul testo e sulle vicende con la scrittrice Elvira Mujcic che è venuta a scuola e ha accolto le nostre numerose domande, aiutandoci anche a dare un volto vero e proprio agli avvenimenti. Allo stesso modo Anita Razdepi e Laura Carloni, rispettivamente una sociologa e una psicologa, hanno aggiunto il loro contributo scientifico e umano sul post-guerra: hanno spiegato la violenza morbosa degli stupri di guerra e dei disturbi post-traumatici che eventi simili lasciano in una persona segnandola a vita. Infine ci è anche stata illustrata la situazione odierna del paese, non esattamente idilliaca. Abbiamo parlato della sua divisione politica e culturale e soprattutto del fatto che anche oggi è teatro di ulteriori brutalità dovute alla rotta di immigrazione balcanica, con i suoi campi profughi e gli estenuanti abusi da parte dell’Unione Europea. Così dopo questa carica preparazione siamo partiti, con qualche vestito pesante in valigia e aspettative non molto alte. Dopo la prima notte in traghetto dove pochi di noi hanno dormito, siamo arrivati a Spalato e in pullman siamo partiti verso Sarajevo. Il passaggio tra la Croazia e la Bosnia è stato netto ed evidente: abbiamo iniziato subito a notare costruzioni abbandonate o non rifinite e un’innaturale quantità di cimiteri, segno di una devastazione ancora chiaramente dilagante e che tutt’oggi purtroppo non si riesce a superare. La nostra prima tappa è stato il villaggio di Počitelj, che abbiamo vissuto come una giusta iniziazione al resto del viaggio. Con curiosità e un pizzico di timore abbiamo cominciato a mettere piede nell’ambiente e a sperimentarlo. Dopo aver provato il succo di melograno e fatto le prime spese però eravamo di nuovo in partenza e siamo arrivati a Mostar, dove abbiamo assaggiato per la prima volta la gentile e forte atmosfera bosniaca, piena di voglia di vita e di volontà di ricominciare nonostante tutto, con sorrisi rubati tra la folla, bancarelle ricolme di merce e ragazzi che si tuffano dallo storico ponte. Abbiamo consumato il primo pasto a base di cibi tipici del paese, ma anche da qua siamo stati costretti a ripartire dopo qualche ora e ci siamo avviati verso la capitale. Essa ci ha accolto subito con una speciale magia. Sarajevo è una città che non ha paura di niente, che è pronta a far entrare dentro di sé chiunque sia preparato; è una città fiera di mostrare le cicatrici lasciate da ciò che ha passato ma che continua a lottare per il proprio riscatto e per il proprio rinnovamento senza mai fermarsi. Ciò lo si percepisce appena si mette piede al suo interno ma lo si può vedere anche concretamente, notando le “rose” sparse per i marciapiedi della città, i segni delle granate della guerra, e l’enorme abisso di differenza tra le nuove costruzioni, tutte vetro e metallo, e quelle passate, che riportano ancora sul loro cemento le tracce degli spari che hanno subito ben trent’anni prima. Abbiamo soggiornato qui tre notti e è stata un’esperienza che ha lasciato una grande impronta su di noi. Nonostante un mancato incontro con una testimone di guerra dovuto ad una sfortunata serie di eventi, i volontari hanno organizzato un viaggio straordinario, capace di far vivere a pieno il clima del luogo. Così mentre loro ci portavano nei luoghi di interesse principale, ci spiegavano cosa fosse successo nella biblioteca nazionale o in una determinata strada, ci accompagnavano all’interno di associazioni che tentano di risollevare il paese o a parlare con l’imam della moschea più antica di Sarajevo, noi andavamo a vivere il più possibile la città. E grazie anche ad una loro spinta ci siamo veramente riusciti. Abbiamo passeggiato tra le luci notturne del centro, abbiamo fatto compere nei mercatini della Baščaršija, abbiamo assaggiato il caffè turco, abbiamo ascoltato i canti delle preghiere del muezzin e il suono del cannone che segnava la fine del digiuno del ramadan, abbiamo accarezzato i gatti di strada e ci siamo riempiti di dolcetti al limone. Infine l’ultimo giorno, un po’ stanchi e infreddoliti, abbiamo ripreso il viaggio e tra la neve siamo arrivati nella nostra ultima tappa, Srebrenica. Qui l’atmosfera è devastante. La sua storia ed il suo dolore si respirano, entrano nei polmoni e non ne escono più, si aggrappano con le unghie e con i denti e lasciano da soli con la propria coscienza e i propri pensieri. Non si può uscire da quella città senza conservarne un segno. La visita alla fabbrica dismessa, sede dell’ONU durante la guerra, e alla mostra permanente oggi allestita, con i video delle violenze della guerra e gli oggetti ritrovati chissà dove e appartenuti a chissà chi, prendono allo stomaco il visitatore e lo invitano ad un’eventuale riflessione, ma non è così per il memoriale. Il memoriale annienta completamente lo spettatore. Il numero di morti, quasi 9000, spaventa e può creare un’illusione di preparazione, ma non si è mai pronti per quella distesa infinita di lapidi bianche che lasciano lo spazio per futuri ritrovamenti e quell’elenco di nomi e cognomi tutti uguali, delle stesse famiglie, che sembra non finire più. Non si è mai pronti. Vederlo così desolato, ricoperto di neve, nel grigiore delle nuvole, con l’innocente gioia di due cani randagi che hanno deciso di rincorrersi e giocare proprio su quel simbolo di dolore è un ricordo di cui non ci libereremo facilmente. Nel frattempo si era fatta ora di pranzo e siamo stati trascinati a mangiare in una casa del posto. Così poi, con la pancia più piena e i cuori più leggeri abbiamo incontrato Irvin Mujcic. Egli si è presentato a noi come una persona che ha vissuto la guerra, ma lo ha fatto con dei modi, dei toni e un’ironia spiazzanti; inoltre non ci ha parlato solo di questo, ha voluto andare avanti. Ci ha parlato del mondo di oggi e di come noi dovremmo averne cura, ma purtroppo stiamo fallendo miseramente. Ci ha chiesto qualcosa su di noi e ha detto qualcosa su di sé e sulla terra in cui vive, con cui è connesso. Esattamente come il suo paese, nonostante il dolore negli occhi e nella voce, vuole costruire qualcosa di più e si impegna per farlo, con una passione e una determinazione che affascina e che sprona chiunque a provare ad essere sempre una versione migliore di se stessi. Con il poco tempo rimasto a disposizione, siamo arrivati a Tuzla, dove abbiamo trascorso l’ultima sera, vissuta con insoliti festeggiamenti di compleanno e con la testimonianza, tanto inaspettata quanto apprezzata, voluta dal destino, del nostro autista, che dopo averci accompagnato fedelmente per quattro giorni, si è sentito abbastanza sicuro da raccontarci la sua storia di profugo, con un po’ di soggezione ma tantissima emozione. Così è arrivato anche il giorno del ritorno a casa, in cui la neonata nostalgia ha dato voce a saluti e dediche commoventi e speciali.

Personalmente è stato un viaggio che mi ha colpito in modo particolare. Essendo abituata a visitare altri paesi in un modo più turistico questa è stata un’esperienza decisamente diversa dal solito. A scuola superate le perplessità iniziali, ho cominciato a provare a pensare a cosa avremmo effettivamente vissuto, sia a livello personale che come gruppo classe. Devo ammettere che tutto il viaggio ha superato nettamente le mie aspettative. Ho accumulato tanti pensieri durante questa gita e anche se sembra una frase fatta ho imparato molte cose. Effettivamente è una frase fatta, in fondo ogni viaggio insegna qualcosa. Posso dire di aver decisamente conosciuto una realtà diversa dalla nostra, diversa dalla maggior parte delle realtà che siamo abituati a vedere. Mi ha stupito la natura di questo paese, la sua tenacia e insieme il silenzio agli occhi del resto del mondo. Mi ha spaventata conoscere un po’ di più l’animo umano, così pronto a distruggere quanto a ricostruire. Mi ha fatto rivoltare lo stomaco pensare ad una realtà di guerra così vicina a noi, pensare alle persone che l’hanno vissuta, al fatto che probabilmente le loro vite, le loro quotidianità e i loro pensieri prima di questi avvenimenti erano estremamente simili ai nostri, cosa che mi ha fatto riflettere anche sull’odierna situazione in Ucraina. Infine, per chiudere con più leggerezza, penso di aver scoperto un nuovo modo di viaggiare, la presenza del mio gruppo classe e il lavoro dell’associazione sono stati un grande valore aggiunto. Un immenso ringraziamento per questo viaggio va ai volontari dell’associazione Lutva e alle nostre professoresse. Loro, smentendo tutti i nostri dubbi iniziali, hanno ripagato noi studenti di tutti questi anni in cui non abbiamo potuto viaggiare e hanno reso questa esperienza indimenticabile. Ci avete lasciato un segno nel cuore, grazie.

Albachiara Rossetti (classe IV H)