L’incontro con Amani El Nasif raccontato da una studentessa.
Dopo l’incontro con la scrittrice siriana, una nostra studentessa ha voluto raccontare con le sue parole l’incontro prezioso avuto con Amani il 16 febbraio a scuola. Riportiamo di seguito le sue parole.
Vorrei raccontare un incontro speciale con una giovane donna, un incontro che mi ha fatto crescere e diventare più consapevole. E forse anche un po’ più forte. È l’incontro con una storia di violenza subita da una ragazza, ma anche con una storia di lotta, di ribellione, di rinascita, di futuro.
Amani El Nasif, autrice di Siria mon amour e Sulla nostra pelle è una ragazza straordinaria di soli 34 anni, con una forza unica. Il 16 febbraio di quest’anno abbiamo avuto l’opportunità di incontrarla, nel nostro istituto, grazie ad un progetto di alcune insegnanti che ci hanno proposto la lettura dei suoi libri, alla quale sarebbe poi seguito l’incontro con l’autrice.
Amani è molto bella, sembra anche più giovane dei suoi anni, subito dichiarati. Ha lunghi capelli scuri, ondulati, che incorniciano un viso dolce che il sorriso illumina spesso. Sembra così inaspettatamente serena, a vederla…Inaspettatamente perché, dopo aver letto la sua storia, noi ragazzi ci aspettavamo forse di trovare nel suo volto, nella sua voce e nei suoi gesti i segni della lunga sofferenza che aveva dovuto attraversare quando era ancora appena adolescente. Invece è sorridente, fluida nei movimenti, accogliente. Oggi è una donna realizzata, è madre di una bimba, sta per sposare l’uomo che ama e con il quale convive da alcuni anni, scrive romanzi, porta avanti progetti di comunicazione sulla violenza di genere, incontra le classi, le autorità cittadine, le istituzioni. E’ spigliata, autonoma, forte ma noi che abbiamo letto i suoi libri sappiamo che ha attraversato l’inferno prima di essere ciò che è ora.
Conoscevamo la sua storia, noi studenti. L’abbiamo letta nei suoi romanzi, ma lei in quell’aula magna, in quella mattina grigia di un febbraio pesarese, ci ha portati con sé, ce l’ha fatta rivivere e questa volta con il suono delle sue parole. Così abbiamo ripercorso con lei la sua angosciante esperienza di quel lontano 2007, quando aveva solo 16 anni, e fu portata in Siria da sua madre con l’ingannevole pretesto di un errore da dover far correggere nella trascrizione del suo cognome nel passaporto. Dopo i primi entusiasmi per poter visitare finalmente un mondo diverso e affascinante, dopo la gioia di poter incontrare le radici della sua famiglia e le tracce del suo passato, Amani scopre di essere stata in realtà promessa come fidanzata ad un cugino e che i patti fatti dalla sua famiglia prevedevano che lei in Italia non sarebbe tornata mai più. L’Italia per lei era un paese del Veneto, dove era cresciuta, dove aveva la sua vita, la scuola, un lavoretto, le amiche ed un ragazzo con il quale viveva una dolce storia d’amore per entrambi importantissima.
La voce di Amani si fa più vibrante mentre ci racconta quella realtà dura e violenta, nel villaggio siriano in cui era stata portata, un mondo in cui le donne non sono che oggetti sotto la tutela dei maschi. Trema un po’ mentre descrive quel fidanzato detestato e violento, oppressivo e manesco, che non accetta la sua libertà, la sua personalità e neppure la sua bellezza, che deve tenere nascosta come una vergogna, celata sotto tre diversi strati di vesti scure, velata, mortificata, mentre ricorda la sua resistenza e la lotta disperata per riprendersi la sua vita.
Sono stati ben 399 i giorni di inferno che lei ha vissuto prigioniera in quella gabbia, privata dei suoi abiti, dei suoi colori, della sua luce giovane e fresca. Piegata con le minacce, con i ricatti e con le botte. Sfiancata da lavori domestici sempre uguali, indebolita da farmaci che le toglievano le forze e le energie per combattere, isolata dal suo mondo, dalle relazioni che aveva costruito in Italia, svuotata di ogni risorsa anche affettiva, dopo che anche la parte femminile della sua famiglia, la madre e la sorella, aveva dimostrato di stare dalla parte dei carnefici, delle tradizioni di una cultura maschilista che sul corpo delle donne ha da sempre imposto un totale controllo.
Amani raccontava e, raccontando, ripeteva che nonostante tutto, in quei mesi sapeva che non avrebbe mai ceduto, mai ceduto a quel matrimonio, a quelle imposizioni, a quelle rinunce, a quella vita… che si sarebbe sempre ribellata. Fino alla morte, come scelta finale, a cui aveva più volte pensato e che, in alcuni momenti, aveva anche sfidato e sfiorato.
Nel suo paese in Italia ad attenderla c’era Andrea, il ragazzo di cui era innamorata e di cui nessuno dei suoi famigliari sapeva. Con un cellulare che teneva nascosto, quasi ogni sera lei gli scriveva o lo chiamava per raccontargli cosa le stesse accadendo lì. Lui era il suo conforto, la sua speranza, il suo progetto, ma era così terribilmente lontano ed impotente, non poteva aiutarla, solo sostenerla o piangere con lei.
Intanto scriveva molto, scriveva tutto ciò che subiva in un quaderno, parola per parola, e la scrittura fu una risorsa preziosa, che la faceva uscire un po’ da quel buio. La “forza della scrittura”, così Amani l’ha definita; l’energia di sprigionare le emozioni, di lasciarle uscire dal corpo e dalla mente e dare vita e peso alle paure che diventano parole, segni grafici, azioni fisiche di una mano che percorre un foglio, lo attraversa, lo marca ed imprime il segno del suo passaggio. Lì su quei fogli Amani ha lasciato le lacrime, gli ematomi del suo corpo reso livido dalle botte, i graffi, le urla di suo padre e dei suoi zii, le mani come artigli del fidanzato impostole dalla famiglia, gli sguardi rassegnati delle sue cugine, i silenzi di quelle notti a piangere da sola, ma anche la bellezza di quel cielo arabo, così azzurro e diverso da ogni altro cielo, quell’arco stellato che la incorniciava ogni notte e che sembrava essere l’unica protezione di bellezza che la vita le desse ancora in quei lunghi mesi di buio.
Incontrare Amani è stato per me un incontro con il dolore reale delle donne, più forte di quello che ci arriva dalle notizie viste nei telegiornali o ascoltate o lette. Avere lei così vicina ed ascoltare la sua storia così apparentemente lontana dal mio mondo mi hanno fatto provare tanta compassione e tristezza. Io ho solo quattordici anni, sono una ragazzina spensierata e felice, lontana da ogni incubo di quel tipo, ma ho apprezzato davvero tanto la sua costante lotta per far conoscere la sua storia ed aprire gli occhi a tutte le persone.
Amani che ci parlava è stata un’esperienza unica; penso veramente che sia stato l’incontro più bello, toccante e coinvolgente che io abbia mai fatto in tutti questi anni di scuola, nonostante fosse strano averla lì davanti, perché non riuscivo ancora a credere che quel corpo, quella mente così sana e quel cuore d’oro avessero passato tutto ciò. Oltre ai sentimenti dolorosi lei ci ha trasmesso anche una meravigliosa energia positiva, un’emozione che non si può descrivere a parole, ma davvero forte, ed un altrettanto forte speranza di cambiamento: anche io, come lei, spero che un giorno non esista più alcuna violenza di genere.
Ore dopo, tornata a casa, non riuscivo a pensare ad altro; il suo racconto mi aveva lasciato totalmente sbalordita, mi aveva suscitato tante riflessioni e pensieri che mi giravano per la testa e sentivo il bisogno di scriverle, di scriverle un ringraziamento, di raccontarle come mi ero sentita e come l’ammirassi. Ho ascoltato il mio cuore e le ho mandato un messaggio. Perché per me Amani è stata un esempio straordinario di come l’essere umano sia capace di attraversare il dolore più cupo e lottare per uscirne, senza arrendersi. Mi ha lasciato però anche un altro insegnamento: di come sia possibile saper donare il perdono profondo a chi ci ha fatto soffrire, come è accaduto a lei che ha comunque perdonato sua madre per esserle stata nemica, e suo padre per aver trattato la sua vita ed il suo corpo come fossero elementi di scambio. Queste persone a lei care, che l’hanno fatta soffrire tanto, lei non ha le “perdonate” per ciò che hanno fatto, non ha mai “giustificato” sua madre per tutta la sofferenza che le ha provocato, ma ha provato a “capirla”. Sono due concetti molto diversi tra loro, la comprensione profonda ed il perdono. Quest’ultimo va oltre il semplice gesto diretto verso gli altri. Rappresenta un profondo cambiamento interiore che si confronta con i limiti, la fragilità e la vulnerabilità di ogni persona.
La mamma di Amani, anni dopo, una volta terminata quella brutta esperienza ed essere entrambe tornate in Italia, le ha raccontato che anche lei nella sua infanzia e adolescenza era stata una ragazzina solare, allegra, con la testa piena di ricci e di sogni ed un cuore palpitante e voglia di vivere; che poi però era stata piegata da volontà non sue, aveva subito molto dolore, era stata costretta a fare tanti figli, sempre sottomessa dalle figure maschili della sua famiglia e da quelle femminili che non avevano saputo essere sue complici, ma alleate di una cultura che le schiacciava da secoli.
Ho provato diverse volte ad immedesimarmi in lei: non sono mai riuscita a pensare cosa avrei fatto io al suo posto, perché a parer mio quella che ha vissuto lei è qualcosa di traumatico, di difficilmente superabile se non si ha una forza di volontà come la sua, ma probabilmente avrei lottato anche io fino alla fine per ottenere la mia vita, la mia libertà, il mio futuro.
E questo prezioso tesoro è da salvare, ma anche da condividere. Con le amiche, con le sorelle, con le donne che incontriamo e incontreremo, con quelle che un giorno saranno le nostre figlie: donne libere.
Jennifer Antoci 1^G-CAT