Un momento di scuola alta in un anno difficile
Abbiamo studiato il colonialismo italiano in Libia e nel Corno d’Africa, non solo nel nostro libro di testo, che gli dedica un unico paragrafo.
Abbiamo letto “Il ritorno” di Hisham Matar, il cui nonno ha partecipato alla Resistenza contro gli italiani occupanti e il cui padre Jaballa, oppositore del regime di Gheddafi, è scomparso nel carcere di Abu Salim.
Infine, sebbene da remoto, abbiamo incontrato Anna Nadotti che di Matar è la voce italiana.
Con un po’ di amaro in bocca, perché per quanto è successo durante questo capitolo della nostra storia ci siamo sentiti come se fossimo in parte responsabili, possiamo però dire di essere più ricchi.
Abbiamo smascherato il mito degli “italiani brava gente” secondo il quale in Africa noi italiani avremmo portato sviluppo, quando invece abbiamo portato guerra, massacri, oppressione, razzismo e i nostri crimini in Africa non li abbiamo mai pagati. Il popolo libico conosce bene i torti subiti per mano degli italiani.
La storia spesso è dimenticata, ignorata o riscritta. Per sapere la verità è necessario valorizzare la letteratura fatta da chi l’ha realmente vissuta, dalle vittime, dai figli separati dai genitori e “spaesati”, come Matar. La sua è letteratura dell’esilio, un modo per provare a “ricongiungere in tutto ciò che si è spezzato”.
Se si racconta la storia degli altri, come fa Nadotti traducendo Matar, è fondamentale usare le parole adatte, senza paura, per esprimere lo stesso tipo di dolore e sentimento. Ed essere curiosi e cercare.
Nel romanzo non per caso è centrale il tema della ricerca. Matar racconta che nella sua ostinata ricerca della verità sul destino del padre, trova una verità preziosa su sua madre. Dunque se si cerca si trova, e allora si ha la sensazione “della vita che si allarga”.
Attraverso lunghe e dettagliate ricerche Anna Nadotti ha fatto del proprio mestiere di traduttrice un’opportunità di conoscere. E conoscere è una responsabilità di ciascuno di noi.
Matar scrive in una lingua appresa, l’inglese, e non in arabo, la lingua madre, la lingua delle origini. E’ uno scrittore insomma che ha già tradotto se stesso. Ma del resto gli uomini quando comunicano non fanno ogni volta "un'opera di traduzione"? Trasformano i pensieri e le emozioni in parole.
“Le parole che provengono da un altra lingua e si uniscono alla propria non la inquinano ma la arricchiscono, la ricamano", ci ha detto Anna Nadotti e il concetto può essere esteso non solo alla lingua ma anche a coloro che arrivano nel nostro paese da luoghi invivibili.
“Noi qui dobbiamo sapere di chi qui è arrivato”.
Oggi dovremmo accettare che nel nostro mondo non ci sono più "confini nazionali", e che in fondo il mondo “appartiene allo spostarsi”. Solo così possiamo aiutare tutte le vittime a cui il colonialismo ha tolto una patria e non sanno più dove rifugiarsi.
Abbiamo infine capito qualcosa di più sul significato di fare bene il proprio mestiere.
Tradurre (come del resto leggere) non vuole dire praticare una lingua, ma “sentire e vedere” grazie alla lingua.
Alunni della classe 5^A-AFM